lunedì 1 agosto 2016

Mai perdute forme del mondo (Palazzo Ducale, febbraio marzo 2015)

A destra, la pittrice Lenka Vassallo
Il Novecento è finito e ciò che ieri era “avanguardia”, nel Pensiero e nell’Arte, oggi è passatismo. Nella ricerca di un nuovo linguaggio per l’arte si fa strada il ritorno al figurativo, che non esclude dai suoi orizzonti ideali di bellezza e finalità di elevazione. Non pochi paesi, soprattutto quelli anglosassoni, hanno già intrapreso questa strada, mentre in Italia siamo in ritardo. Un ritardo preoccupante perché il nostro Paese, patria storica dell’arte figurativa, ha le carte migliori per riconquistare il primato in questo campo. E ad un primato culturale corrispondono sempre risvolti economici consistenti. (Miriam Pastorino, presidente Voltar Pagina)


Un particolare della mostra 
Un gruppo di artisti diversi per scelte tematiche e stilistiche si confronta sul terreno della cultura figurativa. A guidarli, la ricerca della continuità della visione e compiutezza della forma. L’appellarsi a tecniche tradizionali non equivale ad una rinuncia di futuro in virtù di sterili retrospettive, ma risponde semplicemente ad un istinto creativo che le pratiche artistiche consolidate riescono, ancora, a tradurre in immagine. La figurazione dunque, oltre ogni banale dissolvimento e frammentazione quali vuoti e illusori pretesti di modernità. (Lorena Gava, critico e storico d’arte)

Altro particolare della mostra 
Il rilancio del figurativo è legato alla possibilità di trovare uno sbocco commerciale, soprattutto per favorirne la diffusione. Se un tempo a dettare il gusto erano la nobiltà e la Chiesa, oggi l’architetto può giocare un ruolo importante nella formazione d’una nuova committenza indirizzata al figurativo contemporaneo, restituendo a questa forma d'arte una collocazione formale nella cultura visiva contemporanea. (Claudio Vella, architetto)


giovedì 9 gennaio 2014

PER USCIRE DALLA CRISI RIAPPROPRIAMOCI DELLA NOSTRA TRADIZIONE CULTURALE, intervento sull'arte figurativa di Miriam Pastorino al Convegno "Azione contro Inerzia"

A ben guardare si tratta di un’ottima chiave di lettura per comprendere la grande confusione e tutte le contraddizioni proprie del momento storico che stiamo vivendo, e che considerato sotto questa luce si presenta come il futuro che qualcuno ci ha apparecchiato ormai tanto tempo fa. Oggi siamo qui a parlare nell’ambito di un convegno che si propone scopi pratici e tra essi, il più urgente, è senza dubbio quello di creare nuovi posti di lavoro. Ed è proprio a queste finalità che ci atterremo anche se è di arte che stiamo parlando. Purtroppo con il rischio di non venire capiti. Quante volte ci è capitato di sentire persone  affermare che “con l’arte non si mangia”? Sono persone superficiali,  e direi anche  socialmente pericolose  quando si trovano ad occupare cariche importanti. Perché l’Italia, per secoli e secoli, è vissuta ed ha prosperato proprio sul suo primato culturale. In altre parole, sulla forza del suo Pensiero che diventava  modello di riferimento quando si trasferiva nell’arte. Grazie alla pluralità delle Corti, concepite come centri propulsivi di cultura e strutturate come autentici vivai per pittori, scultori e architetti, volutamente lanciati in situazioni creative di intensa e costruttiva competizione, si riusciva sempre a raggiungere l’eccellenza in pressoché  tutte le produzioni artistiche, che diventavano immediatamente oggetto di ammirazione e desiderio per i committenti del mondo intero. Tutto ciò con straordinarie ricadute sul resto dell’economia. Riflessi che sono durati ben oltre il sopraggiungere del declino. So bene che è inutile piangere sul latte versato, ma riflettendo sull'eccezionale dinamismo delle Corti del passato, viene una profonda amarezza pensando alla grande occasione che abbiamo perduto: allorquando, per decenni, gli enti locali hanno avuto a disposizione ingenti somme da destinare alla cultura. Quali mete si sarebbero potute raggiungere se certi assessorati, anziché finanziare ogni genere di manifestazioni di corto respiro, con il principale se non unico scopo di compiacere il presenzialismo di molti e la vanità di qualcuno, si fossero proposti, ad imitazione delle corti, come dei centri attivi per il rinnovo dell’alta tradizione della nostra arte? Ma ora dobbiamo guardare avanti. Per uscire da una situazione di stallo che troppo ci penalizza, la prima cosa che dobbiamo fare  è superare i luoghi comuni secondo i quali a contare veramente sono solo due tipi di arte: L’arte del passato, vista come volano per il turismo; l’arte che passa dai circuiti gestiti dalle gallerie. Un genere di arte che i galleristi stessi  provvedono a rendere sterile in funzione dei loro interessi; spesso in collaborazione con altri soggetti come, per esempio, tanti critici che vanno per la maggiore e taluni musei. A mio avviso esiste un solo modo per far sì che l’arte torni ad essere volano per l’economia: restituirle consistenza di cosa viva: agganciarla, come già sta avvenendo in altri Paesi, al Pensiero, quel Pensiero che in Occidente, spinto da una crisi epocale, si è finalmente rimesso in movimento. In seguito potremo trovare occasioni per indagare sulle molteplici cause di uno stato di cose non più sopportabile. Per il momento ci limitiamo ad osservare che in mancanza di un terreno favorevole alla ricerca non c’è stata crescita ma involuzione e appiattimento. Al punto che anche i più quotati artisti italiani – quasi sempre – si pongono e si confondo tra i livelli medio bassi di un qualsiasi paese più o meno emergente. Abbiamo detto che in questa sede vogliamo considerare le potenzialità dell’arte in funzione del rilancio della nostra economia. E allora, la prima riflessione che ci viene in mente è che gli artisti italiani, eredi della più grande tradizione che sia mai esistita al mondo, nulla hanno da guadagnare e tutto da perdere attardandosi, peraltro in una situazione di debolezza ed assoluta marginalità, nella pratica e nella celebrazione di un certo tipo di arte disseminata di equivoci, che per nascondere il suo nulla si serve di provocazioni e dissacrazioni che pur volendo essere estreme e spettacolari rivelano la loro consistenza di muffa. Per rendere meglio
l’idea della babilonia di cui stiamo parlando mi servirò di questo primo nucleo di immagini. Quelle che vediamo di seguito sono opere di artisti italiani e









stranieri  più o meno famosi, tutti contemporanei, le cui tele  sono quotate da 800 mila euro per arrivare fino a 50 mila.  Ma, provocatoriamente, tra esse, ne abbiamo inserite qua e là alcune realizzate da  bambini e animali ammaestrati ma dotati, ohibò, di un certo talento. Confesso che neanche io, che pure ho provveduto ad inserirle, sono più in grado di distinguere le une dalle altre. Abbiamo parlato di una condizione di arretratezza che riguarda l’arte italiana nel suo insieme. E ora cerchiamo di spiegare rispetto a quali situazioni, sempre servendoci di immagini. Soprattutto nei paesi anglosassoni il ritorno al figurativo è una realtà ormai consolidata, riconosciuta perfino dall’immancabile mercato. L’America, per lungo tempo patria incontrastata dell’astratto e dell’informale, e probabilmente proprio per questo, è oggi il paese più avanti nell’operazione di recupero dell’arte figurativa. Qui emergono pittori di grande talento, sicuri di sé nell’adeguare i temi ma anche le tecniche dell’attualità ai canoni espressivi della tradizione. Operazione che è tornata ad essere intesa come rappresentazione della realtà esaltata dal talento e dalla tecnica in possesso del singolo artista e mediata dalla sua personale interpretazione (o ispirazione). Tutte queste opere meriterebbero un’attenzione maggiore, ma per brevità di tempo mi limito a ricordare il nome dell’autrice dell'opera che vediamo qui. Si chiama Andrea Kowch, possiede un eccellente talento visionario pur attenendosi a canoni realistici ed ha meno di trent’anni. Quello che segue è un quadro di Lucian Freud, il famosissimo ritrattista di regine e top model morto due anni fa. I suoi dipinti hanno raggiunto le più alte quotazioni oggi esistenti sul mercato mondiale. E questo, per chi dà molta importanza all’aspetto venale, vorrà dire pure qualcosa. Cito il celebre Balthus, non anglosassone ma parigino di nascita e deceduto una decina di anni fa: ho voluto inserirlo perché, nell’epoca in cui gli altri pittori si buttavano nelle più spericolate sperimentazioni, lui ha dipinto rifacendosi ai pittori  italiani del Primo Quattrocento e chiudo con Christophe Charbonnel giovane scultore francese di grandissimo talento.
Dipinto dell'americana Andrea Kowch


Dipinto di Lucien Freud
Dipinto di Balthu

Christophe Charbonnel 
Naturalmente esiste anche un figurativo italiano ed è interessante scoprire in quale condizione si trovi a causa dell’isolamento prodotto dalla mancanza d’un terreno favorevole alla ricerca e al confronto e della quasi totale mancanza di accettazione da parte della critica più influente. Necessariamente per sommi capi, abbiamo provato ad esplorare questo mondo, sia a livello nazionale che locale. Ecco l’immagine dello stato dell’arte che abbiamo potuto fin qui osservare. In primo luogo ci sono gli artisti figurativi che, grazie all’attenzione di qualche critico, sono riusciti ad ottenere una certa notorietà a livello nazionale con la conseguente conquista di una committenza e buone valutazioni sul mercato. Come si può notare osservando le loro opere si tratta quasi sempre di pittori piuttosto bravi che però rivelano una cronica mancanza di sicurezza che li porta al conformismo tipico di chi vuol essere comunque accettato. La maggior parte di essi sembra quasi volersi far perdonare il fatto di essere dei figurativi e allora indugiano nella ricerca dei temi tanto cari alla critica ufficiale. Lo fanno scandagliando i meandri della psiche umana, naturalmente torbidi e tendenti al bestiale, oppure esaltando, con il pretesto di denunciarlo, il grande vuoto cerebrale dell’uomo occidentale che dopotutto corrisponde al traguardo finale che si era posto un certo tipo di pensiero. Queste teste senza occhi come questi corpi privi di testa sono sicuramente inquietanti e significativi ma rappresentano la volontà di voler rimanere fermi, con i piedi piantati nel secolo scorso. Una condizione che mai permetterà di esprimere qualcosa di vitale e di esaltante pur partendo dall’antico per quanto attiene la tecnica. 













Poi ci sono i pittori figurativi locali, quelli che qui ci interessano. Al momento lo stato delle nostre conoscenze è ancora limitato, basandosi su alcune iniziative precedenti e sull’indagine che abbiamo condotto nel corso di questi ultimi mesi.  Proviamo a focalizzare tre situazioni tipiche, tutte interessanti a modo loro. Ci sono i pittori nati figurativi che hanno proceduto su questa strada senza farsi influenzare né dalle critiche né dalle mode ed hanno finito per trovare una loro committenza. Tra essi meritano di essere ricordati la raffinata Elisabet Cyran e il poliedrico Dionisio di Francescantonio. Poi ci sono gli artisti che potrei definire “dormienti”. Si tratta di pittori figurativi  spesso in possesso di ottima tecnica e di grandi potenzialità espressive che al momento preferiscono dedicare le loro non comuni energie ad altre attività. Per esempio, Vittorio Morandi.  (Miriam Pastorino)

Dipinto di Elisabeth Cyran
Dipinto di Dionisio di Francescantonio
Dipinto di Dionisio di Francescantonio
Dipinto di Dionisio di Francescantonio
Dipinto di Vittorio Morandi

lunedì 6 gennaio 2014

martedì 28 agosto 2012

SPECCHIO OSCURO. Foto giorno della presentazione






Claudio Papini e Maurizio Gregorini

L'autore e i relatori


Renata Oliveri, Armando Fossati, Matteo Rosso
Maria Antonietta Biagini e Pier Angelo Vassallo

lunedì 27 agosto 2012

LA CONDIZIONE DELLA PITTURA AI NOSTRI GIORNI di Dionisio di Francescantonio (segue)

Capolavori di ieri

Perché se è vero (com’è vero) che la pittura, pur col suo linguaggio peculiare basato sulla figurazione e sulle immagini, è pur sempre un mezzo col quale io cerco di comunicare coi miei simili, allora non posso fare della pittura un linguaggio che non ha attinenza con la realtà e col vero, e che perciò costituisce un inganno e un’impostura, giacché risulta una contraddizione in termini insostenibile che io voglia comunicare con altri ricorrendo a un linguaggio senza forma e in-significante, non intelligibile al mio interlocutore. A meno che io non abbia nulla da dire ai miei simili e sia animato esclusivamente dal desiderio di esercitare un’elucubrazione tra me e me stesso, un giochino futile e inutile, per l’appunto fine a se stesso.
Dicendo questo so benissimo di suscitare lo sconcerto e forse l’irritazione di molti, cosa a cui potrei replicare, poiché sono un seguace della libertà, che ognuno può pensarla come vuole, più chiaramente che ognuno è libero d’impiccarsi alla trave che preferisce. E invece no, noi, oggi, abbiamo il dovere di fare chiarezza proprio perché l’errore si è diffuso, l’errore è penetrato in profondità e si è annidato tenacemente nelle coscienze. Gli artefici che sono rimasti fedeli al figurativismo e non hanno mai rinunciato alla grande tradizione pittorica che hanno alle spalle, devono almeno avere il coraggio di promuovere una discussione su come è stata intesa e praticata la pittura da un certo momento del Novecento fino ai nostri giorni.
Intendiamoci, non basta la figurazione per fare buona pittura. Qui non sto promuovendo il realismo, non ho intenzione di teorizzare che il pittore deve riprodurre la realtà quale è, perché chi in passato ha voluto teorizzare questo concetto è approdato, quanto meno, a quella che da noi è stata definita la glaciazione neorealistica, ma, ancora peggio, a quel realismo socialista che ha afflitto per decenni altri paesi, come la Russia di Stalin e la Cina di Mao. E, infatti, anche oggi che il figurativismo, non avendo più l’ostracismo dei decenni scorsi torna ad essere praticato, non è che produca grandi risultati o almeno risultati apprezzabili, salvo eccezioni, naturalmente. E questo accade perché qualcosa si è spezzato nel corso del Novecento e l’arte figurativa ha perduto il suo carattere e il suo significato più autentici. Giacché in ogni caso – e per essere chiari fino in fondo – non è mai stato sufficiente per un pittore saper riprodurre la realtà per ottenere quello che si chiama l’effetto artistico o, per usare un’espressione che a me piace di più, la magia della poesia. Per ottenere questo risultato bisogna, oltre a saper riprodurre la realtà, essere anche capaci di trasfigurarla. Questa è una regola a cui nessuna disciplina artistica può sottrarsi. Un quadro è riuscito quando sa suscitare una reazione emotiva in colui che lo osserva: un’impressione di serenità, di tenerezza, di tristezza, di pietà, oppure un fremito di sdegno, di avversione, di sarcasmo; questo è il risultato d’eccellenza a cui ogni pittore che si rispetti deve guardare.
Per cercar di capire le ragioni che hanno prodotto lo stato drammatico in cui versa oggi la pittura, comincerò coll’indicarne le origini negli sperimentalismi a oltranza nati da quella malintesa necessità di andare oltre il già visto e il già provato che, da un certo momento in poi, ha informato e travolto tutte le discipline artistiche, ma in modo particolare quelle figurative. Ciò ha introdotto nell’arte, fatalmente, il concetto di effimero, un concetto che non a caso ha trionfato definitivamente in quella stagione distruttiva che è stata il Sessantotto, e che ha svilito la stessa ragione del fare arte. Ora, se c’è qualcosa di non effimero, qualcosa che sfida i secoli e continua a parlare ai nostri cuori nonostante il trascorrere del tempo e il mutare delle generazioni e dei costumi, è proprio l’arte. La contraddizione vistosa e inaccettabile sta, se ci pensiamo, nel fatto che la statuaria greca o le opere di Michelangelo, e i tanti capolavori prodotti fino alla frattura con la tradizione avvenuta nel Novecento, nessuno si sognerebbe di definirli effimeri, mentre l’arte moderna è effimera quasi per definizione. Quindi dobbiamo cominciare col considerare conclusa la stagione degli sperimentalismi a oltranza per cui una cosa diventa già vecchia e sorpassata nel momento stesso in cui nasce: l’arte, quella vera, quella che parla al cuore e ai sensi e talvolta anche alla mente degli esseri umani, non è mai vecchia, non è mai effimera.
Un altro concetto importante, che viene subito dopo e di cui si deve riaffermare con forza la necessità, è quello che io chiamo il ritorno al mestiere. Si sarà notato che preferisco definire l’arte, in qualsiasi forma essa si manifesti, disciplina artistica. Questo per sottolineare la necessità che la pratica dell’arte deve rispondere innanzitutto a una disciplina, ossia all’esigenza di acquisire un mestiere con un tirocinio (anche duro e difficile) attraverso il quale ciascuno troverà il proprio linguaggio personale. In altre parole, chi vuol fare arte deve diventare in primo luogo un artigiano capace, dopodichè, se avrà talento, potrà essere un artista, grande o piccolo si vedrà. E questo per riaffermare una volta per tutte un concetto che si trascura da tempo in nome del falso mito della creatività istintiva, anche questo affermatosi come prodotto del Sessantotto. Quel che voglio dire, in sostanza, è che il talento, per esprimersi, deve necessariamente affidarsi al mestiere, alla tecnica: è da lì che deve partire, ed è solo da lì che può affermarsi. E qui, sembra superfluo ricordarlo, entra in gioco il ruolo che dovrebbe svolgere la scuola, cioè i licei artistici e le accademie di Belle Arti, quella scuola da cui una volta si traevano insegnamenti validi e duraturi e che poi, come tutta la scuola, ha in gran parte trascurati e perduti, perché, anche qui a causa del vento distruttivo del Sessantotto, si è affermato il concetto fallace e fuorviante che tutto può essere arte, anche lo scarabocchio infantile, anche la latta schiacciata raccolta per strada, e perfino la fotocopia riprodotta in diversi colori (non è quello che ha fatto, se ci riflettiamo un momento, un artefice ancor oggi molto quotato come Andy Warhol?) Forse converrebbe ritornare alla bottega dei maestri pittori, dove si entrava come apprendisti per acquisire i rudimenti del mestiere e se non si superava il periodo di tirocinio ci si rivolgeva a un altro lavoro. Ma questo, allo stato attuale delle cose, è solo un sogno, anche se, con la volontà, tutto si potrebbe riprendere.
In conclusione, quel che voglio dire è che bisogna finirla una volta per tutte con la presunta idea di avanguardia che va sempre oltre se stessa per produrre solo dei prodotti labili e quindi facilmente rinnovabili, per l’appunto effimeri come qualsiasi altro prodotto di consumo, che si usa e si getta. Questo prima o poi dovrà emergere, e tanto peggio per quei collezionisti sprovveduti che nei decenni scorsi hanno continuato ad acquistare questi prodotti, talvolta per cifre anche cospicue.
E’ questa avanguardia, insomma, che ha finito per distruggere quel bagaglio ingente di esempi, di contenuti e di tecniche che ci avevano lasciato i nostri predecessori: un bagaglio inestimabile di conoscenze e di scoperte sull’anatomia, sul colore, sulla chimica, sulla prospettiva. A proposito della prospettiva, e tanto per limitarmi a un solo esempio: sono stati impiegati secoli, nel passato, per scoprirla e per riprodurla. Poi sono arrivati Picasso e Matisse che, da un giorno all’altro, hanno deciso di abolirla nella loro pittura. Ma Picasso e Matisse hanno potuto permettersi di liquidare questo come altri insegnamenti del passato perché quegli insegnamenti li avevano acquisiti. Mentre oggi, senza questo tipo di conoscenze, si è totalmente sprovveduti perché privi di strumenti. La prospettiva, per capirci, chi dipinge non può permettersi di non sapere cos’è, sia pure per poterla negare, come faceva De Chirico, ad esempio, il quale per creare certe atmosfere oniriche o metafisiche, come lui le definiva, distorceva la prospettiva fino a renderla improbabile, e questo per produrre un effetto di instabilità e di spaesamento, ossia un risultato che solo la conoscenza di come restituire la prospettiva, e quindi di distorcerla, gli consentiva di ottenere (ecco quindi l’importanza della tecnica, di cui parlavo prima e da cui non si può prescindere).
Da ultimo voglio riaffermare ancora una volta che bisogna restituire all’arte il suo significato primario: quello di comunicazione di una persona con altre persone, perché, se l’arte non assolve più a questo compito, vuol dire che ha finito per perdere di vista il suo stesso scopo, la sua stessa ragione di essere.
(Dionisio di Francescantonio)




domenica 26 agosto 2012

SPECCHIO OSCURO. Presentazione libro di Dionisio di Francescantonio (21 ottobre 2010)

(Cliccare per vedere album fotografico)
Giovedì 21.10.2010, Biblioteca del Consiglio Regione Liguria 
- Matteo Rosso, Capogruppo PDL Regione Liguria: Intervento di presentazione;
- Armando Fossati, Docente di Lettere: Specchio oscuro: stile e contenuto;
- Renata Oliveri, Consigliere Provincia di Genova: Dal rinnovamento della politica al rinnovamento della cultura: un passaggio necessario.

Nota sull’autore: Dionisio di Francescantonio è nato a San Vito Chietino (Chieti) sulla costa abruzzese, ma vive da molti anni a Genova. Ha pubblicato articoli e racconti su riviste e giornali italiani e stranieri, collaborando in particolare alle edizioni Sei, De Agostini, La Scuola, con le riviste Viaggi, Area, Orizzonti, Certamen, Italy Italy, Storia Verità e con alcuni siti internet. In volume ha pubblicato le Casacce, folclore ligure (saggio con illustrazioni fotografiche dedicato alle manifestazioni della religiosità popolare ligure) e due romanzi: L’identità del fuoriuscito e Eldorado

La rapita
Neppure il più robusto codice d’onore, quello che sovrasta e condiziona la vita di Austina può avere la meglio sulla contraddittorietà del suo animo, frutto dell’imperfezione originaria. E poiché l’oscuro ci appartiene, anche noi, uomini e donne di oggi, riusciamo a non sorprenderci del suo gesto violento e incomprensibile.
La travestita
Svolta all’insegna dell’inquietudine e della fuga, della sete di avventura e della spinta autodistruttiva, la breve vicenda umana di Isabelle Eberhardt, giornalista “europea e musulmana” morta in Algeria nel 1904, conferma ciò che sempre più appare un dato di fatto. I primi anni venti del secolo scorso furono quelli che videro la sperimentazione di tutti i falsi miti e le mode insensate destinate a diventare di massa a partire dalla fine degli anni sessanta dello stesso secolo. E con cui ancor oggi siamo costretti a fare i conti, proprio come se qualcuno avesse già scritto un copione che aspettava solo il tempo più adeguato per essere rappresentato. Sarà per questo che la misera fine di questa donna dalla volontà forte ma dall’identità estremamente labile, se, da una parte, ancora ci commuove, dall’altra ci sgomenta.
Brutto anatroccolo
L’adolescenza ci coglie nel momento più difficile. Mentre il corpo e la fisionomia si trasformano e si dissolve il guscio domestico che così bene ci aveva protetti per tutto il tempo dell’infanzia, all’improvviso ci travolge la necessità di sostenere il confronto con il resto del mondo.
Ma l’inevitabilità della prova non diminuisce la natura dolorosa della più tradizionale delle crisi di identità: molti uomini e donne si riconosceranno nei tormenti incompresi di questo brutto anatroccolo concentrato nella sistematica operazione di rifiutare il proprio corpo.
Specchio oscuro

Andrea e Paolo sono due gemelli che hanno organizzato la loro vita credendo di sfruttare a proprio vantaggio la possibilità di farsi beffe degli altri grazie alle loro fisionomie assolutamente interscambiabili. Ma il loro progetto si rivelerà insensato: nessuno può essere mai veramente uguale all’altro perché al di là di tutti i trucchi che di volta in volta si possono inventare il destino dell’uomo resta la sua unicità. Quindi la scelta finale a cui i gemelli ricorrono per risolvere un conflitto che non sembra possibile ricomporre porterà solo all'estremo la simbiosi della loro esistenza, vissuta ormai come una sorta camicia di forza.   il loro inevitabile conflitto li ingabbierà ancor più nella loro patologica simbiosi.