sabato 11 agosto 2012

IN VIAGGIO VERSO IL NULLA VESTITI DA PAGLIACCI (segue)


Immagine tratta da internet 
Quella moda, che seguiva lo stile folk-zingaresco che aveva accompagnato tutta l’epopea del femminismo militante, ebbe straordinaria presa nell’ambiente così detto “intellettuale di sinistra”, in particolare quello che ruotava attorno agli assessorati alla cultura, alle università e al mondo della scuola in generale. Eserciti di pedagogisti e di docenti, esperti della programmazione didattica e della psicologia infantile, formatori, ricercatori ed assistenti di ogni specie, tutti aderenti a quella stessa area politico-culturale, si trasformarono rapidamente in altrettanti manovali o aspiranti clown. Contemporaneamente all’abito mutarono anche atteggiamento e linguaggio. Benché nessuno tra essi avesse mai svolto un lavoro manuale, gli improvvisati “proletari” adottarono un frasario sgrammaticato, gravido di intercalari volgari e presero a mimare gesti osceni, imitando quello che ritenevano essere un perfetto stile “fronte del porto”, mentre i “pagliacci” – non si sa fino a che punto per spirito di gregge o per autentica inclinazione – assunsero l’espressione fissa e perennemente stranita tipica di certe maschere del circo.
Quella metamorfosi improvvisa poteva apparire stupefacente e incomprensibile. Si trattava di gioco, di fragilità di carattere, di incertezza d’identità o di qualcosa d’altro? In verità, tutte queste ipotesi potevano ritenersi praticabili. Per quanto alcuni di quei “giovani” fossero ormai vicini ai quarant’anni, tutti indistintamente concepivano la vita come un eterno parco dei divertimenti, dove la loro personalità “costituzionalmente anticonformista e predisposta a ogni genere di nuove esperienze”, come essi pomposamente proclamavano, poteva dispiegarsi liberamente in tutte le direzioni.
Pure, per rispondere a quell’interrogativo, si poteva formulare un’altra ipotesi che, in realtà, era un’altra domanda: e se tutto quello a cui si assisteva, e cioè l’incredibile e insensata involuzione comportamentale di tanti nostri simili, giovani uomini e donne, impegnati in ruoli spesso di grande responsabilità, non fosse stato un fenomeno superficiale ed effimero ma facesse parte di un disegno più grande concepito da un unico, ristretto gruppo di artefici che, pur operando nell’ombra, era perfettamente in grado di perseguire un diabolico fine?
Domanda strana, ma non troppo per chi viveva nell’ambiente della scuola e non era disposto – come chi scrive – ad abdicare alla dignità della persona, che si esprime anche nella decenza dell’abbigliamento e del linguaggio, per adeguarsi alla scempiaggine dilagante di una moda demenziale e a cui, dopo attenta riflessione, non era sfuggito come i modelli deboli e marginali del pagliaccio e del proletario, così rapidamente e entusiasticamente assorbiti da tanti pedagoghi della New Age nostrana, fossero perfettamente strumentali alla caparbia volontà – anche questa, a prima vista, incredibile – di distruggere la scuola, già sistematicamente perseguita attraverso la politica degli assessorati, l’insegnamento devastante di tante cattedre universitarie ed una legislazione lontana anni luce dalle regole minime del buon senso.
Secondo questa chiave di lettura, gli atteggiamenti imposti con l’immediatezza e la prepotenza di una moda uniformante potevano intendersi come un ulteriore e formidabile condizionamento operato subdolamente attraverso la ripetizione meccanica di gesti e linguaggi stereotipati che, per via associativa, si identificavano con un determinato abito-costume, in questo caso il pagliaccio, colui che vive perennemente in una dimensione ludica, ed il facchino, cioè il proletario per antonomasia.
Ma quale sarebbe stato il destino degli allievi se i rappresentanti di queste categorie salivano in cattedra, sia pure attraverso certi loro approssimati imitatori, in luogo dei veri maestri? La risposta non poteva essere che tragica: private di una vera educazione e condizionate dal predominio dell’istinto sulla razionalità, le vittime di questo stato di cose sarebbero cresciute fragili e sprovvedute, assolutamente incapaci di opporre qualsiasi resistenza ai prepotenti che prima o poi sarebbero arrivati per condurle al macello; forse gli ispiratori di quello stesso, ipotetico progetto dissolutorio.
Si trattava di ipotesi plausibili anche se, nel momento dell’esplosione di quella moda, non era facile comprendere le cose fino in fondo.
Nello sforzo operato per penetrare i misteri di questa realtà detestabile era indispensabile proseguire nel lavoro di immaginazione.
Se davvero esisteva un progetto occulto per destrutturare la nostra società e, attraverso esso, la civiltà così come noi Occidentali la intendiamo e se questo progetto si avvaleva di tutti i mezzi, ivi compresi quelli frivoli ma assai efficaci della moda, quale sarebbe stata la prossima mossa sul fronte, un tempo inoffensivo, dell’abbigliamento giovanile?
La risposta, in fondo non era difficile. Già nel 1982-83 bastava guardare a cosa viene nella scala sociale convenzionale, subito dopo il facchino e il pagliaccio, per conoscere le tendenze della moda per i successivi dieci anni.
Il barbone, il carcerato, il mentecatto, naturalmente e, volendo spaziare nell’esotico, il selvaggio: tutti questi modelli dovevano costituire per forza la fonte da cui avrebbero tratto ispirazione.
Gli abiti stracciati dell’accattone, i tatuaggi da reduce della Caienna, gli orecchini labbro-naso simbolo di una primitività ferina, gli indumenti strapazzati e informi, indossati nell’ordine invertito tipico degli alienati che, appena apparvero sulla scena furono considerati il frutto esclusivo della fantasia impazzita degli “stilisti” e che in tutti questi anni sono diventati tendenza giovanile dominante, marchio indelebile e cifra inconfondibile del nostro tempo, facevano in realtà parte di un campionario preciso, disegnato chissà quanto tempo prima da chi nell’ombra progettava un futuro regressivo per la nostra civiltà. Essi costituivano il pret a porter ideale, per non dire inevitabile, di un’epoca post-civile e post-umana che, alla luce di questa sconvolgente scoperta, finalmente appariva per quello che in realtà è: non già il destino ineludibile del progresso tecnologico e del benessere diffuso ma il lucido disegno ideologico, il progetto intelligente, seppure perverso, di una corrente filosofica involutiva i cui deviati e devianti profeti, a ben guardare, potevano essere individuati per nome e per cognome nei testi della storia recente del pensiero occidentale.
Siamo ai nostri giorni e, ancora osservando quanto di apparentemente insensato e incomprensibile sta accadendo attorno a noi, possiamo anticipare quella che sarà (anzi già è) la successiva posta del gioco a cui mirano i sinistri ispiratori di questo totalizzante progetto regressivo che, solo ora, mentre si evolve, rivela la tremenda portata della sua natura.
Lo stesso individuo che attraverso l’abito indossato – oltre, beninteso, a tutti gli altri condizionamenti negativi assorbiti attraverso i nuovi modelli educativi familiari e sociali – avrà acquisito, di volta in volta, per un meccanismo associativo tanto rudimentale quanto efficace, l’identità marginale e vulnerabile, ferina e pavida del reduce dal bagno penale, dell’alienato mentale, del primitivo e del mendicante, diventando di conseguenza incapace – come i suoi modelli – di organizzare autonomamente la propria vita e di progettare un qualsiasi futuro non parassitario, si troverà inevitabilmente indifeso di fronte alla violenza dell’ultimo attacco che sarà quello decisivo e che ancora una volta arriverà mutuato attraverso l’imposizione di un’altra orrida moda generazionale rappresentata dall’offerta, prima mascherata, timida o underground poi prepotenze e diffusiva, di un ricco campionario del suicidio individuale e collettivo.
L’ultimo atto è già in scena e ha cominciato a mietere le sue vittime tra i soggetti più esposti ai nefasti influssi delle tante mode invasive di cui si è parlato.
Le stragi del sabato sera e le sette suicidiarie, l’anoressia e le auto come camere a gas, certi giochi di ruolo, le fughe senza ritorno, l’attrazione fatale esercitata dal vuoto costituiscono la nuova, per ora solo debole ed occasionale offerta di modelli di vita intesa come morte che si pone accanto a quell’altra ormai radicatissima, ancorché mascherata perché differita, rappresentata dalla droga.
E anche per quest’ultima tragica passerella è già pronto il campionario ideale, quel look demenziale-satanico che già serpeggia sotterraneo per tutta la moda – ancora dilagante – del multiforme stile alienato-marginale, pronto a prenderne il posto nel momento opportuno e a cui, per altro, è perfettamente conseguente e congeniale.
Tutto questo mentre i considerati “grandi esperti del pensiero contemporaneo”, filosofi e scienziati, esperti del costume e critici di ogni genere battono la grancassa del nuovo umanesimo delle favelas e cantano il mito dell’aborigeno ritrovato, pronti a magnificare tutti i miti e tutti i riti dell’Oriente e a bruciare di commozione e di rimpianto per l’inarrestabile tramonto delle ultime etnie della savana con l’unico occulto e fraudolento scopo di imporre l’oblio definitivo della nostra civiltà, della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Quella civiltà classica greco-romana e poi cristiana che fu grandiosa e splendida come nessun’altra. Quella cultura che fu vitale e fertile e sempre progressiva, finché mantenne intatto l’orgoglio di sé e la consapevolezza del suo immenso valore. Quelle tradizioni che da sole potrebbero, una volta rivisitate e aggiornate, aiutarci a trovare, magari più rapidamente di quanto si possa credere, la strada per la rinascita dalla crisi morale che ci sovrasta e che, penetrando nella nostra mente per tutte le vie, ivi compresa quella di una moda capace di forgiare un’identità negativa, chiude l’intelligenza, blocca la volontà, sterilizza e disumanizza. Una crisi che non è economica né istituzionale, come si pretende, ma pura crisi di pensiero. Pensiero paralizzato, da liberare al più presto.
(Miriam Pastorino)